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Plessner (2000) – Riso e Choro

sábado 9 de março de 2024, por Cardoso de Castro

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No riso, o homem distende uma situação. Com o riso, responde de forma direta e impessoal. O homem cai num automatismo anônimo. Ele não ri sozinho; algo ri nele, e ele é, por assim dizer, apenas o teatro e o contentor deste processo. Outra coisa é o choro. Também no choro, o homem dá uma resposta, entregando-se a um automatismo anônimo que se desencadeia mais ou menos lentamente, mas que pode tomar conta dele. Esta resposta, porém, envolve o próprio homem. O homem é envolvido interiormente; é tocado, comovido, abalado. Quando a sua garganta se aperta e as lágrimas aparecem, ele solta-se interiormente, é dominado e entrega-se ao processo do choro.

Vallori Rasini

Nel riso l’uomo quietanza una situazione. Con esso le risponde direttamente e in forma impersonale. L’uomo cade in un automatismo anonimo. Non ride lui stesso; qualcosa ride in lui, ed egli è per così dire solo teatro e contenitore di questo processo. Altra cosa è il pianto. Anche nel pianto l’uomo dà una risposta abbandonandosi a un anonimo automatismo che si innesca più o meno lentamente, ma che può avere il sopravvento su di lui. Questa risposta però implica l’uomo stesso. L’uomo è internamente coinvolto; è toccato, commosso, scosso. Quando gli si serra la gola e compaiono le lacrime, egli si lascia andare interiormente, viene sopraffatto e si abbandona al processo del pianto.

Per questa peculiare e unica modalità di comportamento verso se stessi — per la quale utilizziamo locuzioni eloquenti come “capitolare”, “darsi per vinto”, “abbandonarsi”, “perdere il controllo” —, il pianto si differenzia profondamente dal riso, e così pure il significato della reazione. Naturalmente, nei bambini, nelle donne, negli anziani, nei malati e nelle persone molto emotive questo atto di abbandono può avere luogo più facilmente che in persone controllate e chiuse. Ma esso rimane in ogni caso la condizione determinante per dare inizio al pianto, ovvero la condizione che lo rende possibile. Si tratta di un momento contemporaneamente scatenante e costitutivo. Al riso manca un simile momento: ci assale repentinamente e si allaccia immediatamente al motivo.

Questo elemento deve essere tenuto ben presente sin dal principio. In primo luogo esso mette in guardia verso il tentativo di studiare i motivi del pianto nello stesso modo dei motivi del riso. Certo, motivi specifici ci sono, ma poiché essi agiscono solo attraverso la mediazione di un atto regolato dal centro della persona, la loro determinazione e la loro caratterizzazione non possono darsi semplicemente sul piano oggettivo (al quale appartengono i motivi del riso, incluse la gioia e la disperazione). In secondo luogo, il riconoscimento del carattere mediato del pianto rappresenta una difficoltà per la nostra tesi secondo cui il pianto, in quanto reazione catastrofica, sarebbe affine al riso e come questo, anche se in modo contrario, rappresenterebbe una disorganizzazione nel rapporto dell’uomo con il suo corpo. Poiché nel pianto l’uomo coinvolge se stesso nella risposta, non controllandosi più e lasciandosi andare interiormente e quindi capitolando da se stesso, la disorganizzazione, benché inevitabile, sembra tuttavia provocata da un atto di violazione della persona. Nel riso si spezza il rapporto controllato con il corpo; nel pianto, al contrario, ci rinuncia l’uomo stesso. Ma come può l’autocontrollo (in parte volontario, in parte coatto) portare a una disorganizzazione, se dietro c’è la persona come totalità?

Tutti coloro che si sono occupati del fenomeno del pianto — e a confronto con quanti hanno studiato il riso sono incredibilmente pochi — si sono accorti del carattere mediato del pianto. Essi riconoscono che tra il motivo e lo scatenamento deve trovarsi un atto riflesso, rivolto verso la persona. Non si prorompe semplicemente nel pianto; si sente sopraggiungere una debolezza, un cedimento di cui si può divenire padroni oppure no. Anche il riso si può reprimere, cioè si può impedire il suo pieno dispiegarsi. Ma allora esso è già lì nel suo stadio iniziale: ci ha già catturati. Perché si giunga a tanto nel pianto, devono prima darsi un rilassamento, un distanziamento e una resa interiore davanti a un forte motivo, altrimenti non ci sentiamo indebolire. È impossibile cercare di ridurre questa differenza tra carattere immediato del riso e carattere mediato del pianto a una differenza di intensità o ricondurla a una differenza dei rispettivi meccanismi di espressione fìsica che vi prendono parte. Proprio se si riconosce nel riso un particolare uso di funzioni animali, specialmente del sistema muscolare, e nel pianto quello di funzioni vegetative, soprattutto del sistema secretorio, si deve fare attenzione alle differenze interiori, che non rispecchiano l’esterno, ma sono loro correlate in modo autonomo.

Affinché io cominci a piangere, tra il motivo e lo scatenamento deve inserirsi un atto rivolto verso me stesso, un “darsi per vinto”. Come va intesa questa orientazione verso se stessi? Evidentemente per il pianto essa non è solo scatenante, ma costitutiva.

Sino a ora sono state date due risposte. La prima, la meno complicata e corrispondente all’opinione generale, è espressa al meglio da J.E. Erdmann:1 si ride solo sugli altri, si piange solo su se stessi. Si ride sugli altri perché li si trova comici e ridicoli; naturalmente ciò non vale per se stessi. Si piange su di sé perché ci si ama quanto più possibile e si avverte solo il proprio dolore come dolore. L’altra risposta, più complicata ma più vicina al vero, ci viene da Schopenhauer  :2 il pianto è dovuto alla compassione per se stessi. Non è il mio proprio dolore a portarmi immediatamente al pianto; questo deve prima essere rappresentato come estraneo, vale a dire deve diventare sofferenza affinché io mi comprenda in essa e improvvisamente la percepisca, di nuovo, come mia sofferenza. In questo consiste l’intima costituzione del “dispiacere” che provoca il pianto. Derivate dall’idea affine, ma molto più ristretta, che il pianto sia espressione di un dolore e controparte del riso, espressione invece di piacere, entrambe le risposte fanno dell’atto di capitolazione interiore, del lasciarsi andare, un pianto su se stessi.

In questa concezione si insinuano tre errori. In primo luogo, non si piange solo per dolore, sofferenza, afflizione e tristezza, ma anche - benché forse più raramente - per gioia, per felicità, per commozione, per un grande piacere. In secondo luogo, non si ride solo sugli altri perché sono comici, e soprattutto non si ride solo per motivi comici o spiritosi. Si ride anche su se stessi, se si ha umorismo. Questa capacità di prendere distanza da se stessi è precisamente la pietra di paragone dell’umorismo e la sua vera fonte. In terzo luogo, l’abbandono interiore come condizione del pianto (su qualcuno o qualcosa, per questo o quel motivo) non va scambiato con un pianto su se stessi. Il ripiegamento su stessi che porta a perdere il controllo e l’autocompassione, l’autocommiserazione o il dolersi di se stessi sono cose diverse.

L’opinione popolare parte da questo: ciascuno è il prossimo di se stesso e, in fondo, capitola, perde il controllo solo nel turbamento del dolore. Il piacere e le sue modificazioni sollevano l’uomo, gli rendono la vita facile, gli permettono di smarrirsi. Il dolore e le sue modificazioni, al contrario, rigettano l’uomo in se stesso, lo rinchiudono entro i confini della sua esistenza corporea e spirituale, gli rendono difficile la vita, gli rammentano continuamente se stesso. Piangere non è altro che una trasformazione dell’urlo della creatura tormentata che è in noi, e perciò, in fin dei conti - anche se il motivo si trova nel mondo esterno, nel vedere la sofferenza altrui, nella infelicità del nostro prossimo - è un pianto su noi stessi, vale a dire sul dolore corporeo e spirituale che sentiamo in noi. Erdmann resta fermo a questa limitazione animalesca della percezione del dolore.

Schopenhauer  , al contrario, cerca di cogliere il carattere umano del pianto proprio riconoscendovi il superamento di questo turbamento animalesco. Grazie alla sua fantasia, al suo amore e alla sua capacità di compassione, il singolo supera la posizione di vicinanza a se stesso e in un certo senso si riconcilia con la sua debolezza in modo da piangere su di sé “come su di un altro”. Anche per Schopenhauer   resta fermo il fatto che il singolo può giungere al pianto solo perché colpito in se stesso. Il dolore altrui lo tocca solo nella misura in cui diviene suo proprio dolore. La nostra capacità simpatetica non è sufficiente a commuoverci alle lacrime in una percezione diretta dell’altro. Deve far male a noi, perché possiamo soffrirne. Ma ci distinguiamo dagli animali per il fatto che noi non solo possiamo urlare per il dolore, abbiamo il dono del grido, ma abbiamo la capacità di piangere: non per dolore, ma per sofferenza. L’atto di abbandono interiore è, in se stesso, triplice. Trasferisce il dolore proprio dell’individuo in una rappresentazione rendendolo sofferenza, sofferenza estranea. Mi porta alla compassione per questa sofferenza estranea, così che attraverso una forza simpatetica assimilo a me qualcosa che originariamente mi apparteneva; e infine mi porta a percepire che è la mia propria sofferenza che condivido come estranea.

Per versare lacrime su qualcosa devo dispiacermene. E perché io possa dispiacermene devo compiangere me stesso. Schopenhauer   è pertanto soggettivista. L’uomo piange (e in questo si distingue dall’animale) perché compatisce. Nel pianto egli non pensa solo a se stesso, non sente solo se stesso, non sprofonda unicamente in se stesso, ma sente al di la di sé. Per essere toccato, vive nell’altro e a partire dall’altro, e in questo ritorno a se stesso, in questa riunifìcazione con sé trova il proprio dolore sotto forma di compassione. L’uomo piange perché si duole di sé come sofferente. Egli, certo, si trova al di fuori dei limiti vitali della sua esistenza individuale, ma soffre solo nella misura in cui soffre al proprio interno.

Una teoria del pianto che non violi sin dall’inizio l’orizzonte del dolore e della sofferenza, anche indipendentemente da come si pone la specifica questione del rapporto tra la percezione del dolore e della sofferenza (in se stessi e negli altri) e la compassione, corre il pericolo di essere limitata. Cosa hanno in comune le lacrime dell’amore, della devozione, della commozione, della gioia con le lacrime dell’offesa, della nostalgia, della malinconia, o anche del dolore corporeo? Certamente non il motivo della sofferenza. Perciò la ragione del pianto deve essere cercata in un’altra direzione. A tale scopo è innanzitutto necessario uno sguardo libero sui tipi di motivo e le specie di pianto e per questo è necessario tentare di raggrupparli.


Ver online : Helmuth Plessner


PLESSNER, Helmuth. Il riso e il pianto. Una ricerca sui limiti del comportamento umano. Tr. Vallori Rasini. Milano: Bompiani, 2000